Draymond Green: ovvero l'arte di essere decisivo nella squadra di Steph Curry
Alle volte viene da chiedersi come faccia a sopportare tutto questo. A essere sempre “l’altro”, quello di cui nessuno parla mai o di cui si parla sempre troppo poco. Noncuranti di numeri, statistiche, indici di efficienza, plus/minus e via andare. Certo, in fondo ci sarebbe anche da aspettarselo: nella squadra di Stephen Curry anche uno come Klay Thompson fatica e non poco a ritagliarsi il suo spazio e per vedersi almeno una volta nominato prima dello Splash Brother maggiore ha dovuto appena appena infrangere il record di punti realizzati in un quarto lo scorso gennaio.
Eppure c’è sempre un senso di profonda ingiustizia in tutto ciò. Se i Golden State Warriors giocano a infrangere record quasi per il puro gusto di farlo, interpretando in maniera celestiale il concetto di small ball, il merito è anche, se non soprattutto, di Draymond Green. Uomo ombra, ghost writer, primus inter pares del supporting cast a disposizione del numero 30: chiamatelo come volete ma ciascuna di queste definizioni gli starà comunque stretta. Perché se cercate il segreto della macchina perfetta messa in posta dallo scorso anno da Steve Kerr è dalla parte del miglior prodotto di Michigan State (dopo Magic Johnson, of course).
Trovatelo voi un 2,01 capace indifferentemente di giocare da guardia, ala forte e centro, tirando con il 48% dal campo, il 42.6 da tre, di essere sempre il primo difensore della sua squadra e, nel frattempo, smazzare poco più di 7 assist a partita raccogliendo anche 8 rimbalzi. Il tutto in 33.5 minuti di impiego con un plus/minus del 15.1: in soldoni, con Draymond in campo nello starting five, si parte sempre 15-0.
In fin dei conti non sarebbe nemmeno giusto parlarne solo adesso, nel momento della seconda tripla doppia consecutiva (14-10-10 contro i Suns cui vanno aggiunti i 13-12-11 ai danni dei Kings), secondo giocatore della franchigia californiana a riuscire nell’impresa dai tempi di Wilt Chamberlain, quando i Warriors facevano la spola tra Philadelphia e San Francisco. Però l’occasione era fin troppo ghiotta, tanto più in una sera in cui Stephen Curry ha fatto il giocatore ‘normale’ lasciando, per una volta, il palcoscenico agli altri.
E, quindi, a Draymond. Che risulta il più decisivo di tutti quando il figlio di Dell viaggia a 30 di media, figuriamoci quando scrive solo 19. E’ il bello e il brutto dell’essere compagno della più eccitante macchina da basket dell’era moderna, nella ‘vita da mediano’ che Ligabue amava tanto cantare qualche anno fa. Ma ad avercene di ‘mediani’ così.